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14. Cuore di vetro.

In questa giornata di marzo, c’è un’aria fresca dai riflessi lucenti che accompagnano gli occhi lontano, fino dove arriva la curva dello spazio.
Sono seduto ad un tavolo aspettando di parlare con un cliente che mi ha convocato lì, in questo posto sull’orlo del mare.
Nel dubbio, leggero, su quali problemi possono esserci accanto a tanta bellezza, mi rigiro distrattamente il telefonino tra le mani che mi consegna un messaggio della dottoressa V.: – Dove sei? Posso raggiungerti? Mi scappa di vederti.
Un’ora dopo la incontro, mi sorride, zompetta felice a piccoli passi sui tacchi e con un ultimo balzo mi mette le braccia al collo e mi bacia.
Ha una sporta piena di cose buone, da gita in barca.
Ci sediamo, noi soli, di fronte al mare.
Peschiamo nella sua guarnitissima borsa e ognuno fa le sue scelte: Io affondo la forchetta in un morbidissimo mascarpone mentre lei sgranocchia rumorosamente delle patatine fritte.
Il momento in cui sta per accadere qualche cosa io l’avverto prima, come un animale percepisce un terremoto.
Il dono, che pur mi permetterebbe di correggere gli eventi, è governato da una forza ineluttabile che non mi accorderebbe mai la possibilità di intervenire per deviare la sequenza degli eventi.
Non c’è nulla di sovrannaturale o di magico, sia chiaro.
Verosimilmente credo che abbia a che fare con il principio che non si debba mai barare nella vita, né con se stessi, né con gli altri, neanche a costo di sacrificare la propria o l’altrui felicità.
Ho troppo rispetto per me stesso per provare a fregarmi, e mai eviterei di pormi una domanda perché la risposta potrebbe non piacermi.
Certo, potrei starmene buono, zitto e aspettare.
Le attese, però, mi piacciono ancor meno e non perché mi consuma la mia impazienza, ma perché le considero solo un orpello inutile o, peggio ancora, un atto di vigliaccheria.
Non che nella mia vita siano mancate: ci sono state eccome, anche interminabili, ma è successo solo quando non avevo altra scelta o non trovavo una via d’uscita.
Il destino, ora, si compie e io non ne spezzo il filo.
Inizia un discorso come se non fosse lì per questo, quando invece è venuta per cogliere un frutto che è giunto a giusta maturazione.
Pronuncia parole che sembrano messe a contorno accanto alla parola futuro a cui accenna più volte.
Il futuro di cui parla è un concorso vinto per insegnare in una famosa università lontano da Napoli.
Neanche sapevo avessi fatto un concorso.
Non ti dico tutto – dice, segnando la distanza.
Poi aggiunge, con un tono senza consistenza, – Devi venire con me -.
– Funziona così? Decidi che devi cambiare la tua vita e decidi che la mia vita deve cambiare?
– Io voglio passare il mio tempo con te…
– E il mio lavoro qui? I miei genitori? Come faccio senza il tempo speso in silenzio a guardarmi negli occhi con mio padre? E le polpette di mia madre? Tu sai fare le polpette col ragù? Il nodo alla cravatta? Chi mi fa il nodo alla cravatta?

Io le polpette non le so fare, ma imparo. Tu non vieni con me perché non sai fare uno schifosissimo nodo alle tue orribili cravatte?
– No, perché non so farlo come lo fa mio padre. Lui allaccia le possibilità della seta nell’unico connubio ammissibile, tenendo conto della consistenza, del colore e dell’umidità.
– E quando non ci sarà come farai?
– In quel momento sarà morta pure la poesia e la cravatta non sarà più necessaria.

Farfuglia altre obiezioni, ma ho smesso di ascoltarla.
Mi alzo e vado da un’altra parte, in un angolo della spiaggia c’è un cactus spuntato chissà come, con un unico meraviglioso fiore giallo.
Mi siedo e lo guardo, rapito.
Dopo un poco mi viene vicino, valutando per irriguardose le mie spalle rivolte, e pronuncia la frase peggiore che potesse mai dirmi:
Ascoltami o ti giuro…
E io, senza girarmi:
Mi giuri? Mi giuri cosa? Dimmi, cosa mi giuri…? Vattene! Non voglio più vederti, neanche per sbaglio.

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Pubblicato da 50 copechi

Le memorie e le riflessioni di chi si appassiona ancora a guardare il mondo

2 pensieri riguardo “14. Cuore di vetro.

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