Passo a prenderla e nel tratto di strada da casa sua alla destinazione ci diciamo poco o nulla.
Il suo saluto ha incassato un mugugno per risposta e ora agisce con circospezione. Ho prenotato un ristorante sulla collina di Posillipo.
– Che posto romantico, c’è una vista meravigliosa – mi dice perdonando, molto femminilmente, il mio cipiglio:
– Ho prenotato qui perché conosco il cameriere.
Che è la verità, ma deve essere apparso come un tentativo di ristabilire le distanze.
Che poi avrei dovuto dire che il cameriere che conosco è lo chef de rang, lo chef che non cucina.
Che poi io i sapori li scordo presto.
Le cose che mi porto a casa da una cena al ristorante sono il garbo e la compostezza di chi riceve gli ospiti, li accompagna al tavolo, elenca con maestria e competenza le pietanze, conosce l’arte di fare apparire magicamente il piatto a tavola, osserva non osservato anticipando le mie richieste.
Così sono a mio agio e ordino allineandomi ai suggerimenti.
La dottoressa V. mi guarda cercando di rimando un conforto che non le concedo e, spiazzata, ordina a caso.
L’occasione di apparecchiare una rapida vendetta si presenta sotto forma di una paranza di menestrelli napoletani che si avvicina pizzicando le corde doppie degli strumenti.
Tiene mente ‘sta palomma,
Comme ggira, comm’avota,
Comme torna ‘n’ata vota
‘Sta ceroggena a ttentà!
La dottoressa V. sfila dal cassetto dei suoi trucchi teatrali uno dei suoi sorrisi sconfiggenti e assume una posa ammaliata, al che il cantatore si entusiasma e alza di una nota la sua voce:
Palummè, chist’è ‘nu lume,
Nun è rosa o giesummino,
E tu a fforza ccà vvicino
Te vuò mettere a vulà!”.
La dottoressa V. passa alla fase due, quella che prevede il mio coinvolgimento, e allunga la sua mano sopra il tavolo e intreccia le sue dita con le dita della mia.
Vattenne ‘a lloco!
Vattenne, pazzarella!
Va’, palummella, e torna,
E torna a ‘st’aria
Accussì fresca e bella!
‘O bbì ca i’ pure
Mm’abbaglio chianu chiano,
E ca mm’abbrucio ‘a mano
Pe’ te ne vulè caccià?
L’arte è quella cosa che quando trova riscontro nel pubblico ti illude e ti fa perdere il senso della misura facendoti dimenticare di dover fare i conti col proprio talento e le doti tant’è che il novello posteggiatore prende una stonatura che fa incrinare i vetri della cucina.
Pur confidando che nessuno se ne sia accorto, nel dubbio decide di troncare la canzone e concluderla con la frase:
– Grazzie dottò…!
Accompagnato dal gesto teatrale della mano tesa.
Recupero pochi spiccioli dalla tasca e glieli porgo.
A questo punto sarebbe dovuta finire lì, ma l’artista che sta dentro il posteggiatore non ci sta e ritenendo non raggiunta la rimunerazione minima sindacale dell’arte, decide di dare voce (ancora!) alla sua dignità.
– Dottò, guardate, voi con questa miseria non solo offendete me, ma non onorate la tradizione millenaria della canzone Napoletana…!
Se c’è una cosa che è sconsigliato è affrontarmi quando ho una congiunzione astrale di traverso e, tant’è,:
– Sapete come si chiama questa canzone?
– Voi continuate ad offendere dottò, questa è Palomma ‘e notte.
– Sapete chi l’ha scritta?
– E quale Napoletano non lo sa, questo è un grande successo di, comme se chiamme?, Libbero Bovio!
– L’autore della canzone è il poeta Salvatore di Giacomo. A questo punto immagino che non sapete neanche di cosa parla…
Nella pausa che si è preso per rispondere, il posteggiatore sembra ricordarsi della sua carriera di scolaro dal passato difficile e così che con un tono insicuro, pur affrontando l’ovvio, oppone una formula interrogativa in cui ripone tutte le sue speranze:
– di una farfalla che vola attuorno a un ceroggeno?
– Vedete, quella farfalla, o falena per meglio dire, era Elisa, l’amante del Poeta. Era una ragazza poco più che ventenne che era venuta a Napoli da Nocera Inferiore pecché voleva ffà l’insegnante e vivere coi soldi suoi. Aveva conosciuto Salvatore che era un poeta molto famoso e se ne era innamorata. E, accussì, gli aveva scritto una lettera in cui gli aveva dichiarato tutto il suo amore. Salvatore, però, aveva due problemi: aveva una ventina d’anni in più a lei e aveva un’altra donna. No, non è comme penzate vuie, chell’ata femmena era a Mamma, Salvatore era ‘nu mammone, come ogne Napulitano che si rispetti, tant’è che si sposarono dopo che la mamma morì. Quando nel 1934 Salvatore pose fine alla sua esistenza, Elisa impazzì dal dolore tanto che appicciò tutte le lettere del suo amato. Se vi posso contare questa storia è pecché Elisa si scordò ‘nu cassetto in cui c’era una mappata di lettere che si sono scritti e il foglio originale su cui era scritta Palomma ‘e notte che era del 1904 che era stata musicata nel 1907 da Francesco Buongiovanni, e che voi stasera avete cantato senza cuore. Anche io, dunque, come il Poeta, sono abbagliato dalla fiamma della poesia e voglio allontanare la farfalla, salvaguardandola dal suo destino crudele del ceroggeno.
– Maestro, sta canzone vene ‘a mme?
Senza attendere una risposta, abbassa lo sguardo, gira i tacchi e si avvia verso l’uscita del locale.
A questo punto la dottoressa V. mi punta addosso uno sguardo feroce di rimprovero, di quelli che ti fanno ammettere che pure quando hai la sacrosanta ragione, pure con l’attenuante della luna storta, non devi mai, e dico mai, prendertela con gli altri che non ci azzeccano niente, soprattutto quando lavorano per guadagnarsi il pane.
Ed è a questo punto che, trascorsi quegli ultimi secondi per mettere completamente a fuoco il quadro, mi alzo e mi precipito con uno scatto fulmineo verso l’uscita, neanche avessi voluto fuggire per non pagare il conto. Raggiungo il Posteggiatore e lo fermo agguantandolo per un braccio. Mi profondo in mille scuse, gli dico di quanto sono uno screanzato e che non era mia intenzione di essere offensivo o, peggio ancora, saccente, ma che il sincero amore che nutro per la canzone napoletana mi aveva portato ad esagerare.
– Guardate Maestro, io non mi sono offeso, non ce l’ho con voi. Anzi vi ringrazio. Aggio cantato pe’ cinquant’anne chesta canzone senza cunoscere ‘a storia che mi avete cuntato e mi è piaciuta assai. Da ogge in poi ce metterò chiù rispetto e sentimento. Quanne ce sta ‘na storia arete ‘e parole, è tutta n’ata cosa.