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16. Palomma ’e notte.

Passo a prenderla e nel tratto di strada da casa sua alla destinazione ci diciamo poco o nulla.
Il suo saluto ha incassato un mugugno per risposta e ora agisce con circospezione. Ho prenotato un ristorante sulla collina di Posillipo.

Che posto romantico, c’è una vista meravigliosa – mi dice perdonando, molto femminilmente, il mio cipiglio:

Ho prenotato qui perché conosco il cameriere.

Che è la verità, ma deve essere apparso come un tentativo di ristabilire le distanze.
Che poi avrei dovuto dire che il cameriere che conosco è lo chef de rang, lo chef che non cucina.
Che poi io i sapori li scordo presto.
Le cose che mi porto a casa da una cena al ristorante sono il garbo e la compostezza di chi riceve gli ospiti, li accompagna al tavolo, elenca con maestria e competenza le pietanze, conosce l’arte di fare apparire magicamente il piatto a tavola, osserva non osservato anticipando le mie richieste.
Così sono a mio agio e ordino allineandomi ai suggerimenti.
La dottoressa V. mi guarda cercando di rimando un conforto che non le concedo e, spiazzata, ordina a caso.
L’occasione di apparecchiare una rapida vendetta si presenta sotto forma di una paranza di menestrelli napoletani che si avvicina pizzicando le corde doppie degli strumenti.

Tiene mente ‘sta palomma,
Comme ggira, comm’avota,
Comme torna ‘n’ata vota
‘Sta ceroggena a ttentà!

La dottoressa V. sfila dal cassetto dei suoi trucchi teatrali uno dei suoi sorrisi sconfiggenti e assume una posa ammaliata,  al che il cantatore si entusiasma e alza di una nota la sua voce:

Palummè, chist’è ‘nu lume,
Nun è rosa o giesummino,
E tu a fforza ccà vvicino
Te vuò mettere a vulà!”.

La dottoressa V. passa alla fase due, quella che prevede il mio coinvolgimento, e allunga la sua mano sopra il tavolo e intreccia le sue dita con le dita della mia.

Vattenne ‘a lloco!
Vattenne, pazzarella!
Va’, palummella, e torna,
E torna a ‘st’aria
Accussì fresca e bella!
‘O bbì ca i’ pure
Mm’abbaglio chianu chiano,
E ca mm’abbrucio ‘a mano
Pe’ te ne vulè caccià?

L’arte è quella cosa che quando trova riscontro nel pubblico ti illude e ti fa perdere il senso della misura facendoti dimenticare di dover fare i conti col proprio talento e le doti tant’è che il novello posteggiatore prende una stonatura che fa incrinare i vetri della cucina.
Pur confidando che nessuno se ne sia accorto, nel dubbio decide di troncare la canzone e concluderla con la frase:

Grazzie dottò…! 

Accompagnato dal gesto teatrale della mano tesa.
Recupero pochi spiccioli dalla tasca e glieli porgo.
A questo punto sarebbe dovuta finire lì, ma l’artista che sta dentro il posteggiatore non ci sta e ritenendo non raggiunta la rimunerazione minima sindacale dell’arte, decide di dare voce (ancora!) alla sua dignità.

Dottò, guardate, voi con questa miseria non solo offendete me, ma non onorate la tradizione millenaria della canzone Napoletana…!

Se c’è una cosa che è sconsigliato è affrontarmi quando ho una congiunzione astrale di traverso e, tant’è,:

Sapete come si chiama questa canzone?
Voi continuate ad offendere dottò, questa è Palomma ‘e notte.
– Sapete chi l’ha scritta?
– E quale Napoletano non lo sa, questo è un grande successo di, comme se chiamme?, Libbero Bovio!
– L’autore della canzone è il poeta Salvatore di Giacomo. A questo punto immagino che non sapete neanche di cosa parla…

Nella pausa che si è preso per rispondere, il posteggiatore sembra ricordarsi della sua carriera di scolaro dal passato difficile e così che con un tono insicuro, pur affrontando l’ovvio, oppone  una formula interrogativa in cui ripone tutte le sue speranze:

      – di una farfalla che vola attuorno a un ceroggeno?

Vedete, quella farfalla, o falena per meglio dire, era Elisa, l’amante del Poeta. Era una ragazza poco più che ventenne che era venuta a Napoli da Nocera Inferiore pecché voleva ffà l’insegnante e vivere coi soldi suoi. Aveva conosciuto Salvatore che era un poeta molto famoso e se ne era innamorata. E, accussì, gli aveva scritto una lettera in cui gli aveva dichiarato tutto il suo amore. Salvatore, però, aveva due problemi: aveva una ventina d’anni in più a lei e aveva un’altra donna. No, non è comme penzate vuie, chell’ata femmena  era a Mamma, Salvatore era ‘nu mammone, come ogne Napulitano che si rispetti, tant’è che si sposarono dopo che la mamma morì. Quando nel 1934 Salvatore pose fine alla sua esistenza, Elisa impazzì dal dolore tanto che appicciò tutte le lettere del suo amato. Se vi posso contare questa storia è pecché Elisa si scordò ‘nu cassetto in cui c’era una mappata di lettere che si sono scritti e il foglio originale su cui era scritta Palomma ‘e notte che era del 1904 che era stata musicata nel 1907 da Francesco Buongiovanni, e che voi stasera avete cantato senza cuore. Anche io, dunque, come il Poeta, sono abbagliato dalla fiamma della poesia e voglio allontanare la farfalla, salvaguardandola dal suo destino crudele del ceroggeno. 
Maestro, sta canzone vene ‘a mme?

Senza attendere una risposta, abbassa lo sguardo, gira i tacchi e si avvia verso l’uscita del locale.
A questo punto la dottoressa V. mi punta addosso uno sguardo feroce di rimprovero, di quelli che ti fanno ammettere che pure quando hai la sacrosanta ragione, pure con l’attenuante della luna storta, non devi mai, e dico mai, prendertela con gli altri che non ci azzeccano niente, soprattutto quando lavorano per guadagnarsi il pane.
Ed è a questo punto che, trascorsi quegli ultimi secondi per mettere completamente a fuoco il quadro, mi alzo e mi precipito con uno scatto fulmineo verso l’uscita, neanche avessi voluto fuggire per non pagare il conto. Raggiungo il Posteggiatore e lo fermo agguantandolo per un braccio. Mi profondo in mille scuse, gli dico di quanto sono uno screanzato e che non era mia intenzione di essere offensivo o, peggio ancora, saccente, ma che il sincero amore che nutro per la canzone napoletana mi aveva portato ad esagerare.

Guardate Maestro, io non mi sono offeso, non ce l’ho con voi. Anzi vi ringrazio. Aggio cantato pe’ cinquant’anne chesta canzone senza cunoscere ‘a storia che mi avete cuntato e  mi è piaciuta assai. Da ogge in poi ce metterò chiù rispetto e sentimento. Quanne ce sta ‘na storia arete ‘e parole, è tutta n’ata cosa.

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15. La statua

Estate: sole, mare e… imbianchini per casa.
Qualche goccia mi ha segnato anche se non so come sia potuto succedere.
Me ne accorgo in spiaggia, mentre sono steso al sole, e tocca scorticarmi per levarle.
Una ne tolgo e un’altra ne appare, eppure mi sono guardato bene dall’avvicinarmi a secchi e pennelli.
L’armadio della camera dei miei genitori è massiccio e pesante e mi tocca alleggerirlo per spostarlo.
E poi che mobile è se non si muove?
Mamma, un rigattiere ha aperto un esercizio sopra il tuo armadio, te ne sei accorta?
Tra i tanti articoli in esposizione, il pensiero incontra alcune gocce indelebili della memoria.
C’è una statua che porta i segni di mille conflitti, la ricordo da bambino che mi guardava dall’angoliera della vecchia cucina.
Ho sempre paura di chiedere le spiegazioni a mia madre perché la sua lingua rifugge dall’interrogativo della domanda e salta da un ricordo all’altro senza alcun filo logico a me noto.
Mi faccio coraggio, prendo un respiro profondo e le chiedo conto dell’oggetto.
Mia mamma non indugia e io già tremo.
Lei è nata e cresciuta alla Via Mezzocannone, la strada delle vecchie università, nel cuore di Napoli.
La mia devotissima nonna aveva eletto lei tra le sue figlie come compagna delle sue passioni religiose e all’alba trascinava lei e i suoi meravigliosi occhi grigi e assonnati a messa nella chiesa di Santa Chiara.
Il profumatissimo chiostro delle clarisse, invece, era l’ambiente dei suoi giochi d’infanzia, il luogo straordinario frequentato assiduamente da tanti turisti stranieri e da quel signore di mezz’altezza, tale Benedetto Croce, che nell’ora della sua quotidiana passeggiata dispensava felicità ai bambini sotto spoglia di caramelle.
Mamma, la statua!!! 

Già, la statuina.
Era di una bambina che era accompagnata sempre e solo da una signora che doveva essere sua madre.
Raffigurava Santa Rita e ci giocava là nel chiostro, così, come se fosse una bambola.
Mia madre era chiamata pittura fresca perché era una bambina con un carattere vivace, che segnava come una mano di vernice appena data, ma aveva un cuore grande, come adesso, sempre pronta a prodigarsi per gli altri.
Lei sorrideva sempre a tutti e anche  a quella bambina triste con quella strana bambola, perché un sorriso genera un sorriso.
Una mattina pittura fresca, per porre fine a un’ingiustizia, aveva deciso di parlarle perché non si spiegava come poteva essere che una bambina, di sua spontanea volontà, preferisse come compagno di giochi nientemeno che un adulto! 
Si avvicinò a quegli occhi tristi di bambina che i segni della malattia avevano reso già adulta.
Il suo sorriso fu un lampo ricambiato che sancì l’accordo che avrebbero giocato insieme fino a sera.
Quella fu l’ultima volta che la vide.
Un giorno nel chiostro rivide la madre da sola che piangeva con la statuina in grembo. Mia madre le si avvicinò e rimase in silenzio a cercare con gli occhi la bambina triste. La madre la guardò, le fece una carezza e così, senza dirle niente, le lasciò la statuina.
Ora è lì, che mi guarda, tra i miei libri di diritto.

14. Cuore di vetro.

In questa giornata di marzo, c’è un’aria fresca dai riflessi lucenti che accompagnano gli occhi lontano, fino dove arriva la curva dello spazio.
Sono seduto ad un tavolo aspettando di parlare con un cliente che mi ha convocato lì, in questo posto sull’orlo del mare.
Nel dubbio, leggero, su quali problemi possono esserci accanto a tanta bellezza, mi rigiro distrattamente il telefonino tra le mani che mi consegna un messaggio della dottoressa V.: – Dove sei? Posso raggiungerti? Mi scappa di vederti.
Un’ora dopo la incontro, mi sorride, zompetta felice a piccoli passi sui tacchi e con un ultimo balzo mi mette le braccia al collo e mi bacia.
Ha una sporta piena di cose buone, da gita in barca.
Ci sediamo, noi soli, di fronte al mare.
Peschiamo nella sua guarnitissima borsa e ognuno fa le sue scelte: Io affondo la forchetta in un morbidissimo mascarpone mentre lei sgranocchia rumorosamente delle patatine fritte.
Il momento in cui sta per accadere qualche cosa io l’avverto prima, come un animale percepisce un terremoto.
Il dono, che pur mi permetterebbe di correggere gli eventi, è governato da una forza ineluttabile che non mi accorderebbe mai la possibilità di intervenire per deviare la sequenza degli eventi.
Non c’è nulla di sovrannaturale o di magico, sia chiaro.
Verosimilmente credo che abbia a che fare con il principio che non si debba mai barare nella vita, né con se stessi, né con gli altri, neanche a costo di sacrificare la propria o l’altrui felicità.
Ho troppo rispetto per me stesso per provare a fregarmi, e mai eviterei di pormi una domanda perché la risposta potrebbe non piacermi.
Certo, potrei starmene buono, zitto e aspettare.
Le attese, però, mi piacciono ancor meno e non perché mi consuma la mia impazienza, ma perché le considero solo un orpello inutile o, peggio ancora, un atto di vigliaccheria.
Non che nella mia vita siano mancate: ci sono state eccome, anche interminabili, ma è successo solo quando non avevo altra scelta o non trovavo una via d’uscita.
Il destino, ora, si compie e io non ne spezzo il filo.
Inizia un discorso come se non fosse lì per questo, quando invece è venuta per cogliere un frutto che è giunto a giusta maturazione.
Pronuncia parole che sembrano messe a contorno accanto alla parola futuro a cui accenna più volte.
Il futuro di cui parla è un concorso vinto per insegnare in una famosa università lontano da Napoli.
Neanche sapevo avessi fatto un concorso.
Non ti dico tutto – dice, segnando la distanza.
Poi aggiunge, con un tono senza consistenza, – Devi venire con me -.
– Funziona così? Decidi che devi cambiare la tua vita e decidi che la mia vita deve cambiare?
– Io voglio passare il mio tempo con te…
– E il mio lavoro qui? I miei genitori? Come faccio senza il tempo speso in silenzio a guardarmi negli occhi con mio padre? E le polpette di mia madre? Tu sai fare le polpette col ragù? Il nodo alla cravatta? Chi mi fa il nodo alla cravatta?

Io le polpette non le so fare, ma imparo. Tu non vieni con me perché non sai fare uno schifosissimo nodo alle tue orribili cravatte?
– No, perché non so farlo come lo fa mio padre. Lui allaccia le possibilità della seta nell’unico connubio ammissibile, tenendo conto della consistenza, del colore e dell’umidità.
– E quando non ci sarà come farai?
– In quel momento sarà morta pure la poesia e la cravatta non sarà più necessaria.

Farfuglia altre obiezioni, ma ho smesso di ascoltarla.
Mi alzo e vado da un’altra parte, in un angolo della spiaggia c’è un cactus spuntato chissà come, con un unico meraviglioso fiore giallo.
Mi siedo e lo guardo, rapito.
Dopo un poco mi viene vicino, valutando per irriguardose le mie spalle rivolte, e pronuncia la frase peggiore che potesse mai dirmi:
Ascoltami o ti giuro…
E io, senza girarmi:
Mi giuri? Mi giuri cosa? Dimmi, cosa mi giuri…? Vattene! Non voglio più vederti, neanche per sbaglio.

13. Ci Vediamo in tribunale

Compongo il numero di telefono e dall’altra parte una voce squillante mi annuncia che sono in linea con lo STUDIO LEGALE WC & PARTNERS e mi ripete una formula in uso alle centraliniste di certe compagnie di servizi:
 – Come posso esserle utile?
A questo punto mi scapperebbe di segnalare un guasto sulla mia linea telefonica ma, per fortuna, il mio telefono funziona e riesco a tenere a freno la mia linguaccia inopportuna e irriverente.
La segretaria mi mette in linea col titolare dell’esercizio al quale mi presento:

Collega Capacchione, sono l’avvocato Majakovskij, la chiamo per conto della dottoressa V. che ha ricevuto un suo atto di citazione…
– Allora mio giovane Collega Maiacoso…
Majakowskij, prego.
Dottoressa V… Dottoressa V… Dottoressa V… Questo nome non mi dice niente.
Si mette la cornetta al petto, come se servisse a non farmi sentire,  e con voce da trombone fa rintronare per le stanze del suo studio il nome della segretaria la quale si precipita, apre la porta ed esclama:
Come posso esserle utile?

Dopo che la segretaria gli ha portato il fascicolo il trombone…, cioè il Capacchione, si ricorda la faccenda:
Collega Mariarosa…
Majakovskij!
 Sì, questo è il caso del surdo tornato a sentere (beato a isso!).
Esattamente, il surdo GUARITO dalla mia assistita, una valente otorino.
E che c’entra il MOTORINO?
Motorino? OTORINO! OTORINO!
– Ah, otorino, tu hai detto motorino… Dunque, questa la possiamo definire…
– Sono d’accordo, mettiamoci una pietra sopra e facciamo finta che abbiamo scherzato…
– SCLERATO…? Io non ti consento! Bada bene a quel che dici! Io ti deferisco all’ordine!
 – Scherzato, ho detto SCHERZATO, non SCLERATO!
– Tu hai detto…. Lasciamo stare! La dottoressa deve risarcire il mio cliente che a causa sua ha subito danni gravissimi che devono essere risarciti, è chiaro?
Danni gravissimi? Ma se era sordo ed è stato guarito? Quali danni si subiscono da una guarigione?
– Si è separato dalla moglie! Erano sposati da trent’anni e fin in quando non ci sentiva erano sempre andati d’accordo.
– Non mi pare una causa efficiente.
DEFICIENTE sarai tu, screanzato che non sei altro!!!
EFFICIENTE, aggio ditto EFFICIENTE… non DEFICIENTE.
Fatte cura’ pure tu dalla dottoressa V. che altrimenti ce scappa ‘o muorto!!

L’ultima frase, che pur nel contesto ci stava a proposito, non la pronuncio e, prendendo atto dell’insormontabile problema acustico, opto per una formula classica di chiusura:
Ci vediamo in TRIBUNALE.
Vottati tu dinto ‘O RINALE!

12. Abbracciami

Mi chiama la dottoressa e mi dice che vuole un appuntamento serio, alla qual cosa replico:
Non vorrai mica chiedere la mia mano?
Avvocato, dovresti saperlo che su questo argomento le donne in età da marito non tollerano ironia.
L’appuntamento serio lo vuole presso il mio studio.
Temevo (o speravo, non l’ho capito bene) che volesse vedere il luogo dove passo la maggior parte del mio tempo ma – mi rivela – che il motivo è che le hanno recapitato una busta verde.
Allo scattare del minuto preciso dell’appuntamento, sento bussare alla porta.
La segretaria apre e la fa accomodare.
Le vado incontro nella sala d’attesa e la vedo in piedi e un po’ smarrita e tento di imbarazzarla un poco di più. Mi avvicino per sfiorarla con un bacio sulla guancia, ma mi rimbalza il tentativo ritraendosi come una lumaca a cui hanno toccato le antenne.
Entriamo nel mio ufficio e guarda sospettosamente la sedia che le offro dichiarando di voler rimanere in piedi. Appena si sente al sicuro, dimentica di essersi negata fino ad adesso, mi abbraccia come se fossi rientrato da un lungo viaggio ma, appena provo a partecipare con più applicazione al ricongiungimento, si stacca e mi porge subito una busta.
Estraggo il contenuto dal piego che mi immagino aperto e richiuso senza neanche essere stato esaminato e sulla prima pagina campeggia, a intimorire i lettori,  il logo:

 STUDIO LEGALE W.C.

Lo conosci?
– Chi non conosce Walter Capacchione, l’uomo dalla citazione facile. Il capacchione omonimo lo puoi vedere nelle réclame sui giornali, sui manifesti e sulle locandine sui mezzi pubblici in cui promette di far ottenere sostanziosi risarcimenti a tutti, per qualsiasi cosa, a prescindere dalle ragioni. La qual cosa sarebbe anche vietata, ma la giustizia degli avvocati è lenta come quella riservata ai cittadini. Ha un’inesauribile creatività giuridica ma manca di alcune cose….
– …del tipo?
– I limiti morali…
Inizio a leggere l’atto di citazione e l’avvocato W.C. espone le gravi conseguenze che il suo cliente, signor Donato Stonato, ha subito a causa dell’opera professionale della dottoressa V..
L’ho conosci questo Stonato?
Certo che l’ho conosco, l’ho avuto in cura.
– E che gli hai fatto…?
Ma veramente…
Non aspetto la risposta e continuo a leggere le allignanti parole del maestro W.C..
Sono concentrato nella lettura ma sento i suoi occhi su di me.
All’improvviso dice – Abbracciami! – e mi abbraccia.
Faccio per abbandonare l’atto di citazione e tutto il resto ma mi dice – Leggi, leggi – indicandomi l’atto e invitandomi a riprendere da dove avevo interrotto.
Continuo nella lettura del fatto fin quando ho un balzo.
Ma tu… tu… tu l’hai GUARITO!!!!!
Stavo tentando di dirtelo.
– Io come avvocato ho il dovere di non avere fiducia di nessuno, nemmeno di quello che mi dicono le persone che difendo.
Questo signore era stato in cura presso altri specialisti che  avevano tentato ogni cura conosciuta fin quando non l’avevano dichiarato irrecuperabilmente sordo. Mi ero, quindi, decisa a usare un sistema che io stessa ho messo a punto per i casi disperati. Con alcuni questo sistema si è rivelato efficace e, tra questi, anche lo Stonato ha riacquistato la funzione.
E, dunque, cosa vuole da te??
Mentre sta per replicare la interrompo di nuovo con un gesto della mano e continuo a leggere.
L’atto di citazione tentava di far comprendere al lettore le gravi colpe della dottoressa V. la quale non aveva correttamente e sufficientemente informato il suo cliente circa i rischi e i benefici del trattamento sanitario.
Lo Stonato, a seguito del trattamento sanitario aveva, dopo tanti anni di oblio uditivo, riacquistato l’udito e ora sentiva anche attraverso i muri.
La riscoperta del primo dei cinque sensi gli aveva reso assolutamente insopportabile la moglie da cui aveva deciso di separarsi per totale incompatibilità con le sue nuove orecchie.
La colpa di ciò era indubbiamente del sanitario.
Su questo, per inciso, ero d’accordo con lui; la colpa era del sanitario, più precisamente dell’avvocato W.C. e delle sue tesi ceramiche.
Che cosa pensi di fare?
Voglio pensarci, devo guardarmi tutte le carte.
Abbracciami!
Hai un dono tu.
L’abbraccio.
Quando apri le tue braccia per accogliermi mi sento come se andassi ad incastrarmi perfettamente nel mio pezzo di puzzle, a completare la serie.
Quando mi metti la mano dietro la nuca, le terminazioni nervose della mia corteccia celebrale si attivano e si collegano sullo stesso canale delle tue.
Quando ti stacchi sento la pressione del tuo corpo sul mio e, ora che è svanito l’effetto, abbracciami.
Abbracciami ancora.
Questa volta gioco di anticipo proprio quando sta per allontanarmi.
D’accordo, leggo le tue carte.

11. La siringa.

Tre cuscini sostengono il mio ginocchio che è talmente gonfio che le sue fattezze si confondono con la coscia.
Sento bussare alla porta e mia madre che parlottola all’ingresso con qualcuno.
Entra in camera mia e mi annuncia una visita:
– Vladimi’, ce sta una bella guagliona che ti è venuta a trovare, io me vulesse ffà ‘e fatti miei ma me pare ‘a figlia do Dottor V., chillo addò te mannaje io.
– Ma tu che dice?
– La faccio trasire?
– Aspetta nu minuto, famme sistema’.

Apre la porta e si manifesta:
– Buongiorno avvocato.
– Spero che mia madre ti abbia accolto meglio di quanto la tua abbia fatto con me.
– Mi fa piacere, vedo che la botta non ti ha tolto il buonumore. E, comunque, io ho bussato, non mi sono introdotta furtivamente in casa come te.
– Hai ragione che non mi posso muovere…

Un altro squillo annuncia altre visite, alla porta c’è la squadra di calcetto al completo.
– Ragazzi ma non c’era bisogno di passare…
– Ma no –
risponde la Balia –  è il minimo, una squadra non abbandona il suo bomber in un momento di difficoltà.

Altro squillo, altra visita.
Se continua così occorrerà installare l’eliminacode come alla posta nei giorni in cui si ritira la pensione.
Alla porta si appalesa in grande uniforme mia zia, sorella di mia madre, capo infermiera nel più importante ospedale del Meridione, molto nota a tutti suoi nipoti per la sua famosa puntura con lo schiaffo.
Nel senso che se non te la facevi abbuscavi.
A questo punto i miei timori, con un alto grado di credibilità razionale, iniziavano a trasformarsi in sospetti severi.
Ma vuoi vedere che è tutto un complotto alle mie spalle? …E non solo a quelle.
La zia mi informa che nel ginocchio si è formato troppo liquido,  che non può rimanere lì dov’è e che va aspirato immediatamente con quel siringone che tiene in mano che sembra un bidone aspiratutto industriale.
Alle sue spalle sbuca mia madre in tenuta da cecchino con la siringa in mano e col pollice sullo stantuffo, pronta a fare centro sulla mia chiappa.
A questo punto i dettagli del loro sporco piano sono tutti scoperti.
Mia madre ha invitato la dottoressa V. (ma come faceva a sapere??) confidando che in sua presenza e in presenza della squadra io potessi dare una prova di vero ardimento ovvero, in mancanza, di un minimo sindacale di pudore.
Mi ridesto inconsciamente nel letto in una posizione difensiva  che ai miei avversari deve parere oppositiva tanto è vero che li vedo già organizzarsi per improvvisare un piano alternativo.
La Balia, maledetto, inizia a confabulare con mia zia per organizzare una strategia più consistente, bloccando le mie iniziative a centroletto, i progetti di diserzione sulle ali e, conseguentemente, far partire la diagonale dell’ago direttamente sul ginocchio e sulla chiappa.
Nella stanza il clima di agitazione sta salendo e invito la dottoressa V. ad accomodarsi in salotto nel mentre sbrigo questa faccenda familiare, ma mi risponde che non lo farebbe per nulla al mondo e che forse c’è bisogno anche del suo contributo.
Per trattenermi.

La tensione amplifica l’ingegno.
Nel momento in cui stanno per sferrare l’attacco decisivo, mi vengono gli occhi del pazzo, apro il cassetto del comodino, impugno uno spray e lo punto contro la folla di assalitori.
Con tutto il ginocchio gonfio mi alzo dal letto e faccio per inseguirli urlando minaccioso: SPRAY AL PEPERONCINOOOO!!!
Gli astanti, con in testa la dottoressa V., si disperdono immediatamente uscendo dalla stanza che neanche durante il terremoto di Casamicciola si è visto mai e mi chiudo dentro a chiave. 

Guardo ammirato la bomboletta di spray e mi do una generosa sgasata per il mal di gola.

Esempio di riuso.

10. La partita

Il mercoledì, cascasse il mondo, si gioca il classico del calcetto, avvocati contro commercialisti.
Il nostro Riccioli d’oro è infortunato e lo sostituisce in porta Bambino, il centrale di difesa è l’insormontabile Fierro, a centrocampo ricama Velluto e poi io che dovrei marcare le segnature.
Il quinto componente della banda è ‘Sua immobilità’ la Balia.
Una volta durante una partita in cui stava particolarmente in forma ha percorso centodieci metri certificati col gps, il suo record personale. A suo dire, è il professore della palla rotolante venuto a insegnar l’onor dell’arte palleggiatoria di cui dichiara di conoscer ogni segreto.
In tutta sincerità, noi ne faremmo anche a meno del suo magistero di alta scuola calcistica, però lo lasciamo fare e dire anche perché è lui che organizza e fa tutte le telefonate.
Nella vita avrebbe voluto fare il commissario tecnico, ma poi si iscrisse controvoglia alla facoltà di giurisprudenza per seguire la gloriosa tradizione forense della sua famiglia.
Quella palla rotonda è la sua vita, per lui attaccare e difendere a 360 gradi rappresentano i grandi archetipi della vita e, quando va in udienza, per rivalsa, infarcisce le sue arringhe di metafore calcistiche trasformando le cause in una puntata di una di quelle trasmissioni sportive che hanno occupato prepotentemente ogni palinsesto televisivo.
Una volta, grazie a una raccomandazione, era stato anche invitato in televisione.
Gli ospiti erano ex giocatori della squadra locale, giornalisti sportivi e avvocati: Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per imbastire una discussione sul nulla.
La Balia aveva fatto sentire la sua opinione su tutto, non trovando il sostegno di nessuno e dissentendo sulle opinioni di tutti gli altri.
Ogni volta che gli altri avevano la parola e lo inquadravano, scuoteva il suo capoccione bovino, contestando e disapprovando ogni parola.
Quando parla faccio finta di ascoltarlo perché gli voglio bene e perché sono il suo pupo preferito.
Mi mette il braccio al collo con fare cameratesco e mi impartisce le istruzioni: 

Vladimi’, fai movimento in mediana, proteggi la palla e fai salire la squadra e, mi raccomando, fai le diagonali che sono fondamentali, lo sai che ci tengo.

A me il pallone mi piace assai e la partitella settimanale la gioco con piacere, qualche partita pure me la vedo, però, quando la partita è finita, il televisore lo spengo.
Detto questo, non ho il coraggio di dirglielo, ma io proprio non lo so che cosa sono queste diagonali.
Così abbozzo.
Lui insiste:

Comunque, non so se hai visto, ma hanno cambiato il portiere. Statti accorto che di cognome fa Rancore, ricordati nomen omen. Gli hanno riferito della tua performance dell’ultima partita e ha detto che se fai più di tre gol non la finisci tutto intero.
-No, non ti preoccupare, faccio una partitella tranquilla, qualche passaggio, qualche tiro da fuori, qualche tangenziale…
DIAGONALE!!! DIAGONALE!!!

Fischio d’inizio, comincia la partita.
Il monumentale Fierro recupera la palla sul loro attaccante, la Balia urla di passare la palla a Velluto, il quale finta di corpo, si libera dell’avversario, scatta suo fondo e la mette bassa al centro, io scatto in avanti anticipando difensore e portiere, la tocco di tacco e la metto dentro passando tra le gambe di Rancore.
Uno a zero, palla a centro.
Mi giro, guardo il portiere, e gli sussurro:
– Senza Rancore…
Vladimi’, che ti avevo detto?? Ora, dovrei solo sostituirti…
E con chi mi sostituisci? Già è stato un miracolo metterci insieme tutti e cinque. Ma poi perché ti preoccupi, che te ne importa?
Come di che mi preoccupo, Rancore è il mio commercialista!
Venduto maledetto!

Alla fine del primo tempo, siamo sopra di quattro gol e io ne ho fatti tre.
Ci fermiamo per dissetarci prima di riprendere.
Fuori c’è una bionda atomica che è venuta a vedere la partita con le sue amiche.
Riccioli d’oro, spettatore non pagante, mi riferisce che le ha sentite conversare e che l’arma di distruzione di massa ha detto che sono un gran fico, anche se sto più per terra che in piedi.
A proposito, aggiunge, è la sorella di Rancore.  
La partita riprende.
Sono caricato a molla e ne faccio altri due.
La partita ormai è finita ma c’è tempo per un’ultima azione: un rimpallo a centrocampo e il pallone schizza verso il fondo.
Rancore mi vede scattare e corre pure lui e io, per anticiparlo, vado in scivolata.
Mi sembra di scivolare all’infinito, ma poi mi arresto contro il palo di sostegno e una vite sporgente mi fa un grosso taglio sopra al ginocchio.
Mi rotolo dal dolore.
Bambino, senza dire una parola, mi alza da terra e mi carica su una spalla come si fa con un sacco di patate e mi porta in ospedale.

Con la coda dell’occhio vedo Rancore che sembra più dispiaciuto di me.
Ora come glielo racconta ai suoi amici che mi sono fatto male da solo?  

9. Oscàr.

Per strada mi sento chiamare con un esercizio retorico sconosciuto ai Napoletani, urlare a bassa voce.
Vladimiròò, Vladimiròòò…
Mi giro e, nonostante gli anni passati, non faccio fatica a collegare la faccia al nome:
Oscàr, Mon ami! vous êtes de retour sur la terre napolitaine!
E qui finiva il mio francese.
Avevo messo insieme Guy de Maupassant e una vecchia canzone di Vecchioni.
Mi abbraccia e mi spiega che dopo la dipartita di sua zia era tornato per sistemare le sue cose e aveva bisogno di una mano con la bureaucratie  italienne.
A tua disposizione!
Al che sembra risollevato, più per mia risposta in italiano, che per mia disponibilità.
Si sa, i Francesi ci tengono alla loro lingua.
I Napoletani devono aver preso questo vezzo da questo popolo.
Dieci Anni prima.
– Toni’, lui è Oscàr, è appena arrivato dalla Francia, è venuto a trovare la zia che è amica di mia mamma, sta qua pe’ quacche juorno, sta cu nuie.
Tonino Telecom stringe forte la mano a Oscàr per dargli il benvenuto.
– E Giaciglio? Nun è ancora venuto?
– Eh, figurate!
Tonino Telecom era così chiamato perché teneva ‘n’abilità a cunoscere ‘e femmene che era senza pari, era campione mondiale dell’avances. Tempo dieci minuti e già teneva il numero della ragazza in tasca tanto che teneva una rubrica grossa come un elenco telefonico.
Giaciglio, invece, era quello che teneva la macchina, l’unico che teneva un lavoro fisso.
Il suo vero nome era Giacinto, ma ormai se ne era scordato pure lui.
Si alzava alle 3 del mattino per andare ai mercati della frutta e tirava avanti come un ciuccio di fatica fino a tardi. Quando terminava la sua giornata, però, non rinunciava a uscire anche se era perennemente in ritardo. Appena arrivava, il tempo di accendere la macchina e faceva contatto con Morfeo, cadendo addormentato sul sediolino posteriore.
Dopo, però, gli raccontavamo come era andata la serata e lui era contento lo stesso, si sentiva partecipe perché lui c’era stato.
Oscàr nun parla ancora buono l’italiano ma è n’artista, un musicista…
– Ah sì, e che sona?
– L’armonica. Oscàr, falle sentì che te fire ‘e ffà…
Oscàr si portò lo strumento alla bocca e mentre prendeva fiato per attaccare arrivò Giaciglio, stranamente in orario.
– Oilloco, sarà caruto ‘a coppa ‘o lietto!
E Telecom:
– Jamme, ca so’ passato addò barbiere, stasera nun me ferma nisciuno!!! Stasera è la mia sera, stasera c’arriesco!
Nella sua sfolgorante carriera costellata da trionfi in tutta Napoli, Telecom aveva una zona scoperta: Piazza Amendola, di fronte al Liceo Umberto.
Ogni volta che capitava in quella piazza perdeva tutte le sue sicurezze, le sue frasi d’approccio smarrivano il tempo e l’effetto e facevano fetecchia peggio di un tracco bagnato.
Stasera, però, era carico a molla.
Il posto davanti del passeggero era il suo – testa di ponte di tante espugnazioni – io alla guida, Giaciglio abbioccato e Oscàr che lo guardava perplesso.
Telecom aveva dettato il copione:
– Allora, Oscàr, tu non parli bene italiano, mettiti in un posto e ascolta a mme. Vladimi’ tu… devi dire che te chiammo Ciro.
No, me chiammo Vladimiro.
– ‘O vuo’ capì o no ca è ‘nu nomme ca porta agitazione? Comunque, appena puoi devi dire che sì studente universitario, chella a chesti ccà ce piace chistu fatto, dille ca vuò ffà ‘o maggistrato.
– No, voglio ffà l’avvocato.
– Dille che cacchio vuo’ tu, ma famme ffà a me…
Parcheggiai dietro la piazza.
Diedi uno scossone a Giaciglio che la prese come una coccola e andò in fase rem, allora gli rimboccai la coperta e lo lasciammo lì a dormire.
Telecom si scelse un posto al lati della Piazza e attaccò lo scandaglio in cerca di un paio di occhi abboccanti.
Dopo una decina di minuti arrivò un riscontro, ma Telecom non voleva commettere errori, indugiò qualche momento più del dovuto in cerca di conferme, indossò il suo sorriso furbetto e si avvicinò, servendo la sua migliore formula d’entree.
Io e Oscàr ci attaccammo alla ruota.
Si presentò – sono Tony Telecom –, poi passò a presentare noi.
– Lui è Oscàr, è francese. Lui invece è Ciro.
– Veramente mi chiamo Vladimiro.
E la brunetta: – Vladimiro? Sei di Milano?
Intervenne Telecom: – Non vi preoccupate, Vladimiro è il secondo nome. Sapete, è un promettente studente di giurisprudenza, tra poco diventerà magistrato…
– Avvocato, prego.
E la biondina: – Avvocato? Che sfigato…
Telecom mi guardò come a dire: Hai visto? Nun me staje mai a senti’.
Meno male che c’era Tonino Telecom a tenerci a galla. A parte qualche sbavatura, stava andando veramente alla grande, aveva già battuto il suo record di permanenza e il capello appena fatto dal barbiere si stavano rivelando soldi ben spesi. Aveva raccontato di chiamarsi così perché era un affermato dirigente dell’azienda telefonica e che si ricordava a memoria tutti i numeri di telefono di tutti i clienti Telecom e che all’elenco mancava solo il loro.
Le ragazze ridevano, ci stavano, sembravano aver superato il trauma del mio nome e della mia scelta professionale.
Il copione reggeva, Oscàr restava zitto, io ogni tanto aggiungevo una spruzzatina di spirito, senza metterci troppa enfasi.
Quelle erano due, noi eravamo tre.
Oscàr, probabilmente, realizzò che era di troppo.
Improvvisamente, fece un passo indietro, estrasse la sua armonica dalla tasca e attaccò a suonarla.
Ci fu un attimo di smarrimento, l’attenzione mia e di Telecom si spostò tutta su Oscàr. Il tempo di un secondo, ci voltammo in sincrono per vedere la reazione delle ragazze e, pouf, non c’erano più, sparite, scomparse, disintegrate.
Tonino Telecom iniziò ad avvampare, gli occhi si fecero di brace e abbrustolirono prima Oscàr e poi me che me lo ero portato dietro.
– Oscàr, mo’ scumpare  da annanze all’uocchie mije pure tu!
Lui avanti e noi dietro zitti.
Ogni tanto borbottava.
Risalimmo in auto sconsolati per riguadagnare la via di casa, accesi la macchina e Giaciglio si ridestò giusto il tempo di capire che avevamo azzeccato un’altra figura e si appisolò di nuovo.
Telecom stava rivivendo le scene davanti ai suoi occhi, sequenza dopo sequenza, battuta dopo battuta, e non poteva non riconoscersi che era stato perfetto e quei due avevano sciupato il suo capolavoro.
Dopo un po’ i minuti di silenzio iniziarono a pesarmi sulla coscienza e accesi lo stereo.
La radio passava i Kool and the Gang, Get down on it.
Al ritornello iniziai a intonar: Ghedda on it… ghedda on it…. ghedda on it…
Al che Telecom: – Bella ‘sta canzone, me piace.
Hai visto? – pensai – la musica funziona sempre.
– Mi piace soprattutto ‘o testo – continuò.
– Pecché tu parle inglese?
– Pecché è inglese? Nun è Napulitano? Nun dice JETTA ‘ARMONICA??
Non gli era passato.

8. L’identikit.

-Vladimi’, che tieni a mammà? Nun saccio comme te veco, comme te siente?
-Sto un poco raffreddato, ma sto meglio.
– L’altra sera sì turnato una zuppa d’acqua…
– Te l’ho detto, ho avuto una botta di calore e ho sudato, tutto qua…
– E che hai sudato, acqua e sapone al muschio selvaggio? Tu te cride ca so’ nata ajere?
-Mammà, pienze chello ca vuo’ tu.

Non infierisce e, all’improvviso, come la puntina di un giradischi quando incontra un solco rotto, cambia discorso:

-Hai visto ‘o giurnale? L’ata sera hanno arrubbato a casa del dottor V., l’otorino, chillo addo t’aggio mannato io… Non si campa più tranquilli in questa città. Speriamo ca l’arrestano a ‘stu fetente!
-Speramme ‘e no!
-Comme?
-Niente, niente…

L’articolo del giornale in cronaca annunciava che la notte scorsa un furfante, probabilmente straniero, si era introdotto in casa di un noto medico per perpetrare un tentativo di furto, ma che era stato allontanato dalla viva reazione della padrona di casa che l’aveva messo in fuga.

La donna, come lei stessa aveva raccontato, era sopravvissuta per miracolo all’aggressione perché l’uomo l’aveva aggredita alle spalle e lei era riuscita abilmente a liberarsi grazie alle lezioni di Wing Chun che aveva appreso direttamente da Yip Man.

Il figlio, militare di carriera, era subito intervenuto e aveva provato a inseguire il ladro il quale, però, aveva fatto perdere le sue tracce. Si era detto molto dispiaciuto di non aver potuto fare la sua conoscenza e che se dovesse capitare un’altra occasione di stringergli la mani (e tutto il resto), all’esito dell’incontro, l’anatomopatologo farebbe molta fatica a rimettere insieme tutti i suoi pezzi, pur se pratico di puzzle.  

Il dottor V. si era attivato, aveva scritto a tutti i comitati per la sicurezza del quartiere, aveva messo in moto tutte le sue conoscenze presso le autorità competenti e la polizia si era già detta sulle tracce del losco individuo, sicuramente un professionista in quanto era riuscito a entrare in casa senza nessuna effrazione.

Le forze dell’ordine, grazie alle preziose informazioni fornite, avevano predisposto un preciso identikit del malvivente che era al vaglio degli inquirenti.

Seguiva la pubblicazione dell’identikit di un tipo truce, con gli occhi, capelli e pelle scuri e con una enorme cicatrice a forma di X in mezzo agli occhi.

Mia mamma infierisce:
-Madonna mia, quanto è brutto!
-Ricordati, ogne scarrafone è bello ‘a mamma soja.

Due giorni dopo arriva un messaggino della dottoressa V.:

Mamma l’hai conosciuta, ora devi conoscere papà.

7. La vasca, parte seconda

Dopo aver varcato l’ingresso, accende le luci illuminando la casa a mezzogiorno.
Il gesto deciso mi rinfranca, da sostanza alla sua sicurezza.
Si spalancano alla vista delle alte pareti bianche che reggono delle antiche e imponenti tele.
Scuola napoletana?
Non chiedo, non è il momento di approfondire.
Proseguo, seguendola, lungo il corridoio che da solo è più grande di tutta casa mia.
Apre una porta che da nella camera da bagno e mi fa accomodare.

Eccola lì la vasca.

C’è pure il muschio.

Ci sono pure i petali.

C’è pure già l’acqua.

Ci sono pure due bicchieri e il tire-bouchon.

Mi guarda, sorride maliziosa allargando le braccia come a dire, hai visto?, tutto previsto!
Tiro figurativamente in aria il dado, mi arrabbio o non mi arrabbio?
Faccio la faccia accigliata, mi avvicino e mi dedico ai bottoni che la costringono in abiti che non le rendono giustizia.
Lei ride, io sono serio e concentrato.
Lei scende nella vasca neanche fosse Liz Taylor in Cleopatra, io mi immergo come una fetta di pane nel ragù.
Quando glielo faccio notare inizia a ridere più forte portandosi la mano alla bocca per contenersi.
Io sempre serio, ma preoccupato.
Più mi vede serio e preoccupato più la sua ridarella aumenta e scoppia come tanti pop corn, neanche avessi aumentato la fiamma alla padella.
Devo contenerla, devo calmarla: il vino, le verso il vino!
Prende un sorso abbondante, mi guarda e la ridarella riesplode e ricaccia con un pernacchio pirotecnico tutto il vino addosso a me.

A questo punto la mano sul viso gliela metto io, ma me la morde.

Poi interviene un suono presago e funesto, uno sferragliare di chiavi alla porta di ingresso.
– Porca troia, non sarà mica tornato mio fratello?
I guai sono come i carabinieri, viaggiano sempre in coppia.
Da fuori la porta vibra una voce tonante:
– chi c’è in bagno!!
– Pa… pa… Papaaà? Sono io, faccio un bagno.
A quest’ora?
Sì, ho bisogno di rilassarmi.
E io sottovoce: – e com’è che io mi sono tutto irrigidito?
Mi fulmina con lo sguardo e mi conferma, qualora non ne avessi avuto il sospetto, che se il fratello mi trova lì mi irrigidisce per sempre.

Il padre intanto da fuori la porta ci conferma la bella notizia: – mi sono dimenticato di dirti che stasera torna tuo fratello.

Mi intima di rivestirmi quanto prima possibile e che proverà a distrarre il padre e il fratello in cucina mentre io guadagno la via di fuga.
Lei esce e io tutto bagnato mi rivesto alla bella e meglio e, non sia mai detto dovessi morire, mi faccio l’ultimo sorso di vino.
Un Amarone della Valpolicella 2009 e neanche l’assaggio?
Schiudo lentamente la porta, fuori non c’è neanche un filo di luce.
Faccio appello, che poi è più una preghiera, a tutta la mia capacità di orientamento.
A quel punto mi butto a terra e procedo a passo di leopardo: avanzo a sinistra, a tatto riconosco libreria, una porta, svolto di nuovo a sinistra, trovo il mobile basso, la porta di ingresso.
Mi rialzo alla ricerca del chiavistello – dove cacchio sei chiavistello? – il cellulare, devo fare luce, devo accendere, sì accendo.
Illumino la porta con la luce fioca dello schermo ed è a quel punto che, come un presentimento, giro il cellulare ed è li che è mi appare la defunta… la faraona… insomma Tutankamon, la quale lancia un urlo che lo sentono pure i suoi parenti in Egitto.
Mi pietrifico dalla paura per dieci lunghi secondi poi, non so come e perché, urlo pure io sincronizzandomi sulla sua stessa lunghezza d’onda.

Da quel momento in poi non è che ricordi molto, ho aperto il chiavistello e sono scappato facendo le scale a quattro a quattro, scomparendo nel buio.

6. La vasca, parte prima.

Venerdì. Ore 19:59 studio, 20:01 moto, 20:09 casa, 20:16 doccia, 20:20 specchio, 20:22 auto, 20:33 destinazione, 20:34 messaggino: “sono giù”.

Che facciamo?

Andiamo a cena in un locale dove fanno po’ di musica dal vivo, ti va?

E già qui ho commesso il primo errore, ho passato la palla all’avversario.

Se mi chiedi cosa mi va, allora devo dirti che ho voglia di fare un bagno caldo in una vasca col muschio selvaggio, tanti petali di rosa, luci ‘ambient’ e musica in sottofondo…

Quod erat demonstrandum.
Proviamo almeno a pareggiare.

Sono previsto anche io nella vasca?

Solo se porti il vino.

Se è per questo ti porto pure le rose. Quando lo facciamo?

Ma ora naturalmente.

Come ora? E dove le troviamo, a quest’ora, tutte queste cose? Chiamo un hotel e dico: buonasera, sono l’avvocato Majakovskij, avete una camera libera? Nel kit di cortesia c’è il muschio selvaggio? E i petali di rosa? C’è la vasca con le luci ‘ambient’? Non credi che dopo aver pronunciato quest’ultima parola mi mandino a soggiornare alla premiata pensione ‘mavaffanculova’?

Insomma Avvocato, non riesci a risolvere mai un problema, devo pensare a tutto io.

Cioè? Tu conosci un posto dove ci sono tutte queste belle cose, tutte insieme, e non dici nulla?!?

Certo che ce l’ho – io contrariamente a te ho sempre una soluzione – il posto è casa mia.

Ma mi pare tu non viva da sola.

A questo punto mi spiega che la madre la chiamano Tutankhamon, che prima di andare a dormire  si mette la tunica, si cala una dose massiccia di pillole sedative, recita due Padre nostro, quattro ave Osiride, si stende a braccia conserte, va in morte apparente alle otto della sera e resuscita dopo dodici ore esatte. Il padre, invece, in caso di terremoto della settima scala Richter si rigira solo di lato, per avere speranza di poterlo ridestare occorre una scossa del nono grado a salire. Aggiunge che è sordo come una campana incrinata e che dovrebbe prendere un appuntamento con se stesso e visitarsi, ma che non lo fa perché non va d’accordo caratterialmente con se stesso. Infine, anche se ci riuscisse, si dovrebbe prescrivere un apparecchio acustico grosso come un aereo di linea.

Non hai anche un fratello?

Il fratello, mi spiega, lavora al nord ed è un militare di carriera, fissato con l’addestramento e con le armi, una specie di Rambo, la Vendetta della Vendetta. Quand’era piccola le allontanava tutti gli spasimanti. Operava con tecniche da guerriglia, si nascondeva dietro un cespuglio e, quando stavano per dichiararsi, sbucava fuori in tuta mimetica, la faccia camuffata e il coltello in mano. Se ci fosse stato qualcuno col cronometro in mano a prendere il tempo, molti record mondiali sarebbero stati sbriciolati. Il fratello, a suo dire, non avrebbe mai scorticato vivo nessuno. Aggiunge, però, che ora che ci pensa non ha mai più rivisto (vivo) nessuno dei suoi pretendenti.

Quindi tuo fratello non è democratico?

No, credo che voti per quelli là…

Mi sono spiegato male, intendevo… con te è democratico…? Insomma, ecco, è geloso?

– Più che geloso è tormentato.

– E tu ora me lo dici??

– Senti, Avvocato, un uomo si misura dal suo coraggio, tu quanto ne hai?

– Vuoi una risposta così, su due piedi, senza prima permettermi di valutare i rischi, senza calcolare le variabili, senza sapere quanto è grosso, quanto è cattivo, quanto gli stanno antipatici gli avvocati…

Ed è in momenti come questi che le donne si giocano la matta.

Se per un bagno nella vasca con me, col muschio e le rose ti devi mettere a disegnare i grafici: BASTA, ACCOMPAGNAMI A CASA.

A questo punto metto in moto e mi incammino.

– Dove vai?

– A comprare il vino.

Giunti sull’uscio della porta di casa, mentre sta per inserire la chiave nella toppa, noto in lei un segno di un accesso di riso.
In quel momento, avrei dovuto cogliere il presagio della catastrofe che incombeva.

5. Le zendraglie.

«Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile,
prendilo come un segno che non hai capito
né la teoria né il problema che si intendeva risolvere
».
(Karl Popper, Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico)

 Mi chiama il Cavaliere Scuro e mi comunica che l’appuntamento con Vulcano è sotto la statua di Salvo D’acquisto. Gli avvocati in Italia sono sotto scacco. Sembra che chi faccia le Leggi scambi per assioma il cliché dell’avvocato che cerca di imbrogliare il giudice e spogliare il cliente. Solo così si spiegano offensive virali dai nomi obbrobriosi, mediaconciliazionespecializzazioneordinamento professionale, abolizione della prescrizione.
Sfrutteremo il tempo di un pranzo per discutere di questioni e soluzioni. Sì, il foro è luogo di politica oltre che di dialettica espansa. Esibire parole è il nostro mestiere.
Come al solito, ognuno porterà i suoi pensieri pronti a saltare fuori come grilli.
Neanche il tempo di salutarci che Vulcano erutta la prima idea e io non mi trovo d’accordo neanche con la premessa: “Vi fidate di me?”
Mette ai voti la proposta di andare a mangiare trippa in un posto incagliato nei vicoli di Napoli: Io accenno un ma titubato, il Cavaliere Scuro un  alla cieca. Involontariamente rivolgo lo sguardo al monumento, ma Salvo non mi risponde e i due, in coro: “Qui tacet consentire parvet!”. 3 a 1, la maggioranza fa l’appetito.
Tre avvocati in quel quartiere in abito d’ordinanza si notano come un drappo rosso nell’arena. Alla Pignasecca di Napoli, la folla è un realtà solida, insieme ai palazzi e le pietre del fondo stradale, si fende come un mare. Non importa se cravatta e borsa di cuoio non sono per curare ma per far ammalare, sempre “dottore” sei e allora cedendo o sopravanzando il passo l’intercalato –Dottò mi scusiDottò permessoDottò attenzione– ci accompagna a destinazione.
Il luogo è angusto, dove c’è spazio c’è un tavolo. Ci accoglie una cameriera con voce dalla cadenza meccanica. Non faccio fatica a riconoscere l’accento, quella della terra dei miei avi. Irina è russa di Omsk, nel cuore della Siberia. Mi mette ilarità sentirla sciorinare prelibatezze partenopee fino a quando, ad un certo punto, tra un piatto e l’altro ne sussurra uno che è una reminiscenza diventata mito, per non essere mai stata soddisfatta: zuppa di carne cotta. La voglio. Vulcano merita ulteriore considerazione, voglio anche la trippa.
Il tempo culinario si taglia in due, prima la preparazione, poi il consumo.
La gente pensa che la democrazia sia parte del panorama ma la democrazia è un bene prezioso e raro che rischiamo di perdere. Una distorsione del costume occulta l’essenziale, manca la critica della crisi di civiltà che ci sta divorando. Stiamo andando incontro a una dilatazione della forbice delle diseguaglianze”, attacca il Cavaliere Scuro. E Vulcano: “il valore del dubbio, dove lo mettiamo il valore del dubbio? L’uomo moderno ha un travaglio perenne, il dubbio è un elemento forte che si appoggia necessariamente come propensione critica a una certezza ed è per questo non si può invocare il dubbio perché mancano le certezze. La condizione è quella di chi non ha sicurezza ma senza poter esibire un dubbio elemento critico nei confronti di una certezza esibita”.
Già, annuisco, ma non ci ho capito nulla.

A cavarmi dall’impaccio arriva Irina e ci stende dinanzi un piatto piano, ampio, con la trippa adagiata su un letto di songino e pomodori, uniti in un convivio voluttuoso. Il piacere del gusto è un piacere tattile e sensuale, che mi restituisce radice e sguardo.
E quando la zuppa di carne cotta è servita l’intimo viene fuori da una caverna, e parlare di se stessi diventa facile.
Divento leggero.
Sento la folla, la famosa folla partenopea, che scorre nella via.
Un sangue che pulsa, vivo come la vita e denso come questo vino. Torno a una felicità ingenua. Quella della volta prima, delle primizie, quella di bambino. L’amico da amico mi consegna una pacca sulla spalla e io gli sorrido di gratitudine. L’amicizia è un dono se si avvera.
Altrimenti non è niente.

4. La dottoressa V.

Un messaggino della dottoressa V. mi avvisa che ha un impedimento di lavoro e che non può, purtroppo, prendere il caffè con me all’ora concordata.
Fa nulla – le rispondo – sarà per un’altra volta.
E a pungere non è l’orgoglio ferito ma l’otite che si risveglia; il mio fisico reagisce a tema.
Per fortuna a cancellare l’amarezza interviene un aggiornamento: 
E se il caffè lo trasformassimo in un bicchiere di vino?
E io di rimando:
Ho sentito di un tizio che trasformava l’acqua in vino, il caffè in vino è la prima volta. Se ci riesci iniziamo la pratica per la santificazione!
Quando la scorgo rispondo al sorriso con un sorriso ma non la riconosco. Ho difficoltà a collocare la dottoressa V. tra i miei conoscenti senza il suo camice bianco.
Apre la portiera della macchina e mette subito le cose in chiaro: 
Come va l’otite?
– Con te in macchina si sente più al sicuro.
Guido, scomposto sul seggiolino, svoltando strade e imboccando possibilità.
Alla fine dell’incrocio, trovo il mare e parcheggio.
Il vetro spesso del locale ci ripara dal freddo, ancor prima del vino, e ci consegna quasi intatto il panorama. Ride di tutto quello che dico, anche quando sono serio.
Ad un certo punto mi rendo conto che l’ineluttabile inizia a tardare. E’ solo questione di trovare l’attimo giusto ma lo farà. Lo so che lo farà, lo farà certamente. E mentre delicatamente agita a vortice il suo Cannonau nel bicchiere panciuto che mi parla di un suo fidanzato passato. Tutte le donne hanno un ex da dimenticare o, almeno, certamente tutte quelle che escono con me, tutte, nessuna esclusa, persino quelle che non l’hanno mai avuto se ne inventano uno. E dopo essersi affrancata dal voto solenne è pronta per fare domande. Vuole sapere chi sono.
Mi ascolto mentre parlo e ancora parlo senza un disegno da ornare e alla fine della bottiglia penso di saperlo, ma è un’illusione che svanirà alla fine della sera. Il mio discorso tocca solo quello che non sono.
Mi fissa diritto negli occhi. Tanto diritto che mi confondo. Lei accavalla le gambe, le sento sotto il tavolo muoversi. Si tende in avanti sul tavolo, mostrando il busto, intravedo l’incavo profondo della scollatura e cerco di mostrare la calma e l’autocontrollo che non ho.
Sei  una persona interessante e non convenzionale, e non solo per l’affare dell’otite. Ecco, ci siamo.
La distanza semina il frutto.
Cerco di non ripetere cliché, ma oramai ho mischiato tanto le carte che non ho memoria di quelle già uscite. Ci avviamo alla macchina. Ed io apro a lei una portiera che mi pare traballare.
– Sei un cavaliere!  Mi dice, manierata, fingendo una sorpresa.
Le obietto che in realtà, effetto della notte e del vino, pensavo fossimo venuti con la sua macchina
Ride, spalancando la bocca. Il biancore dei denti segna un luccichio nel buio. In macchina facciamo pochi metri. Mi mette una mano sulla coscia e mi chiede di accostare, proprio lì, dinanzi al mare.
Fermo e spengo il motore.
Voi che avreste fatto? Beh io no. Aspetto, cerimonioso.
Lei mi chiede Quando mi baci? 
Ha la voce più bassa di un tono e io non sento le gambe.
Infilo la mano destra tra il collo e i capelli, muovendomi poco sul sedile. Mi avvicino piano, come in un film in bianco e nero, dove l’imbarazzo di guardarsi dura più del bacio. Ha le labbra umide e gustose.
Succede in quel momento che le nubi che oscurano il cielo decidono di liberare gocce d’acqua grosse come noci. I respiri fanno tirare drappi di panno ai vetri. Scompare alla vista anche il mare e il subisso d’acqua sulla lamiera dell’auto cancella il suono della risacca delle onde che si consumano sul molo.
E mi fermo sul resto.

3. Il muro.

Wahnsinnige Nacht

Da qualche giorno mio padre vive incollato alla radio, i muscoli del volto scandiscono le parole pronunciate dallo speaker.
Con la mente segue il rigo di quel che vuol sentirsi dire, della notizia attesa, scandita come conviene.  
I pensieri nella sua testa viaggiano più veloci delle azioni.
Mi chiede se posso accompagnarlo domani.
Gli dico, scherzando, che l’accompagno fino ai confini del mondo.
Mi risponde, serio, che è un po’ più vicino dove deve andare.
Mi sveglia alle 4.
Sento il rumore, continuo, delle gomme sull’asfalto. A tratti la comunicazione si interrompe: il manto stradale è disconnesso, in Italia. Appena fuori, non conosce più interruzioni.
“Andiamo a Berlino” mi dice, piano, come un fatto che si compie in maniera quotidiana e naturale.
E’ il 9 novembre del 1989. La città, ebbra di sogni e di sonni perduti, vive il dolore e la felicità del parto.
La partizione schizotimica è guarita, il muro si sbriciola. Le due Germanie si mescolano, come le carte di un mazzo, le Trabant partono alla scoperta del mondo.
Così le vite si ricongiungono, come brandelli di fogli strappati.
Le divisioni segnano, sulla carne scrivono e sull’anima durano.
Alle Porte di Brandeburgo un uomo anziano imbraccia un violoncello e infila le note in una partitura di liberazione.
Mio padre saluta con la lingua che fu di suo padre il maestro Rostropovich, il più grande violoncellista di tutte le epoche, venuto a suonare il suo personale requiem al capezzale del muro.
Il suo violoncello materializza visioni esultanti e malinconiche, perché ora siamo felici, ma dobbiamo ricordarci che il Muro è stato dolore, separazione, morte.
Le separazioni, le lacerazioni, i dolori che aveva vissuto mio padre in fuga dal suo paese. La notte del 13 agosto del 1961 capita nella parte sbagliata della città degli angeli, è ingabbiato dalla ferita di cemento eretta per tamponare la fuga del popolo verso l’ovest, in quella notte che Berlino Est diviene la prigione nella sua ora d’aria.
Un calice di Rotkäppchen, senza corpo né equilibrio: ecco l’ago del magnete che lo conduce a  Benito Corghi.
Benito viaggia continuamente tra le due Germanie a causa del suo lavoro di autotrasportatore. Una notte del ’63 mio padre con lui varca il confine, addensato come un grumo in un recesso del camion. Quell’uomo, buono, gli concede di vivere quindici anni da cittadino libero di disperarsi altrove. Ha barattato un calice del peggior champagne con il rischio di essere arrestato per il reato di commercio di uomini
Una mattina del 5 agosto del 1976 Benito si accorge di aver lasciato alcuni documenti alla frontiera appena varcata. Il camion è troppo ingombrante da girare, scende a piedi ma un militare di guardia gli spara uccidendolo sul colpo perché, si disse, aveva cercato di evitare i controlli posti al confine. Al processo il militare fu assolto.
Ci rechiamo alla stazione di confine tra le città di Rudolphstein e Hirschberg dove Benito fu ucciso e lì, mio padre mescola le lacrime al liquido della bottiglia.

È sorprendente

la capacità umana di abituarsi

ad una condizione di per sé inaccettabile

Peter Schneider

2. L’otite.

Ho un dolore vivo all’orecchio, colpa dello scooter, mi ripeto.
Ho un dolore all’orecchio”.
Colpa dello scooter!” mi dice mia madre “Devi farti visitare dal dottor V., dicono doni i sensi pure alle campane”.
Le dico di farmi fissare un appuntamento per il mercoledì, martedì ho una causa importante e non posso permettermi un dottore che mi dica di rinunciare per un po’ al mio prezioso mezzo di trasporto.

La mia coscienza è già abbastanza appesantita.
Mi apre un segretario, chiedo dell’asso del condotto uditivo.
Mi dice che il luminare non c’è, riceve solo il martedì. Come posso non saperlo?!? Il mercoledì riceve la dottoressa V., stesso cognome. Resto lì titubante, mi tocco l’orecchio e mi convinco che il mio caso merita un parere autorevole. Cerco le parole da evocare per coprirmi la fuga appellandomi all’incomprensione e lì, proprio in quel mentre in cui la prima sillaba sta per vedere la luce, si spalanca una porta ed esce un camice bianco che incornicia la perfetta anatomicità della dottoressa V. che accompagna alla porta una vecchietta che non smette di elogiarla.
Lei è il prossimo?
Sono il prossimo!
Mi accomodo, mi guarda, mi sorride; ecco, penso, sono scoperto!
Mi dica”.
…Mia madre mi ha fissato l’appuntamento, io non sapevo che ci fossero due dottor V. e il martedì…”.
E questo cosa c’entra con i sintomi?
I miei sintomi… …Dunque. C’entra … Ho un dolore all’orecchio destro, terribile… Pensavo che mia madre avesse confuso l’uno con l’altra. Io, invece, cercavo proprio di lei, della dottoressa V.. Si dice un gran bene sul suo conto, sa?
…E il martedì?
E il martedì… …e il martedì mi viene il dolore  anche al sinistro!”
Mi afferra le guance, come ad un bambino, e in questo modo mi tiene fermo mentre procede all’osservazione delle cavità alla ricerca dell’origine del dolore.
Fa sibilare alcuni suoni metallici, prima acuti e poi gravi e poi bassi.
Mi dice che ho una banale otite, ma che proprio non riesce a spiegarsi l’affare del martedì!
Si allontana un attimo dalla stanza, la mia curiosità si dirige verso una colonna di cd, nascosti tra una pila di libri scientifici. Ne sfilo uno, lo guardo con incanto.
Le piace il jazz?”, prende il disco dalla custodia e finalmente nella stanza vibrano note buone a sanare l’anima piuttosto che la carne.
Yusef Lateef, you’ve changed, la mia preferita”.
La buona musica funziona con me come un siero della verità: “Le devo confessare una cosa, ero venuto per il dottor V., non sapevo neanche che ci fosse una dottoressa V. e l’affare del martedì, ecco… mi sono profuso in una penosa arrampicata sugli specchi“.
Evidentemente funzionava anche con lei: “Le devo confessare una cosa: Sono la figlia del dottor V., mi ero accorta del fraintendimento, non è la prima volta che mi succede. Non ho osato confessarglielo prima perché lei mi divertiva troppo. Per farmi perdonare non le farò pagare la visita”.
Facciamo così, la visita gliela pago e lei per farsi perdonare mi offrirà un caffè…
D’accordo, martedì!

Proprio il giorno in cui ho il dolore anche al sinistro!

1. Vladimiro Majakovskij

“Ma voi potreste eseguire un notturno su un flauto di grondaie?”

L’aria oggi mi pare pesante, calca il mio corpo come una ruota.
Mio padre mi saluta ogni mattina con lo stesso augurio:

– Che oggi sia un altro giorno in cui il tuo nome possa ricordare un’antica fierezza.
Fierezza, orgoglio e dignità; tutto in un nome, il mio: Vladimiro Majakovskij. Sono nipote del celebre poeta russo Vladimir Vladimirovič Majakovskij.
Ne avrete sentito parlare!
Il poeta che faceva all’amore con la rivoluzione e la rivoluzione all’amore.
Con tutta evidenza non sono un poeta, non lo nacqui, e gli anni a venire sciolsero ogni ulteriore dubbio.
Divenni avvocato e come tale oggi porto nei tribunali la fierezza, l’orgoglio e la dignità… di mio padre.
Intendiamoci: conosco il mare periglioso dell’orgoglio, fatuo tentatore, e la mestizia di una fierezza che è solo solitudine.
La dignità, poi, non è affar di nome.
Con il mio nobile avo condivido forse la natura caratteriale provocatoria, ironica e tumultuosa, e la poesia che amo come il corpo di una donna.
Nel diritto, però, sublimo la mia passione e vedo fuochi laddove, a una vista comune, vi è solo paglia.
Studio, per essere un buon avvocato.
Per errore, sono un uomo di fascino.
Di certo, sono un pessimo poeta.
Ho scarsi rapporti con la grammatica del cuore e una propensione poco discreta per l’eleganza che mi rendono arbitro di parole estetiche e tattili, arguto osservatore degli altrui tranelli ed esecutore attento delle norme giuridiche atte allo svelamento e alla dissipazione.
Cosa dissipo? Le menzogne.
O almeno quelle verità che, per vincere, fanno credere tali.
Non è forse l’arte dell’avvocatura quella di convincere e vincere?